lunedì 8 agosto 2016

Il sentiero della felicità

Sono una persona piena di speranze. 
Da piccola ero una pessimista catastrofista, ma solo perché, essendo ipersensibile, lasciavo vincere la percezione di essere inevitabilmente incompresa e fuori dal mondo. Il che significava dovermi gestire il mondo interiore da sola, con conseguente autoreferenzialità eterna. Non che oggi questa percezione sia del tutto sparita, ma sull'altro piattino della bilancia la fede e l'entusiasmo per la vita, associati alla consapevolezza di poter costruire il mio presente (e anche il futuro), pesano verso la positività. 
Perché dico questo? Perché non voglio lanciare un messaggio di ineluttabilità. Penso, infatti, che ci sia sempre una via di uscita e un punto di svolta. Il problema è che, più rimandiamo, più questa svolta necessiterà di manovre difficili, dolorose e faticose. Questo ha un peso nella vita di tutti, ma lo ha ancora di più quando si tratta della crescita e dell'educazione dei bambini. Che poi le due cose sono collegate. Mi spiego meglio: quando un adulto sviluppa un certo modo di vivere nel quale lo sforzo di oggi non vale la felicità del domani (il che si potrebbe tradurre nel "faccio la cosa che mi costa meno fatica o mi arrangio per risolvere le questioni impellenti, poi per il domani vedremo") è portatore di un tipo di approccio alla vita che non è in grado di generare felicità, se non un senso di appagamento temporaneo che svanisce non appena il problema si ripresenta. Tale atteggiamento nasconde comunque una certa ansia dovuta alla consapevolezza che la criticità si ripresenterà. Come se non bastasse, questo stile di vita ricade pesantemente sulla vita dei figli e sulla loro crescita, perché di solito include anche lo stile educativo. Lo so, ho detto che non voglio essere catastrofista (anche se va di moda e a volte serve per riaccendere le coscienze), ma sono dell'avviso che con i piccoli il rischio di tutto questo sia molto elevato. L'infanzia è il periodo più impregnante della vita, quello in cui si gettano le basi di tutto. Oserei quasi dire che la prima infanzia (0-3 anni) lo è. Questo significa che ciò che facciamo, il modo in cui viviamo, la modalità con cui intendiamo la felicità, saranno il fondamento su cui si baserà la personalità del bambino o della bambina. Se rimandiamo la risoluzione di alcuni problemi, se cerchiamo di tamponare, ma non andiamo in profondità, tutto il futuro dei figli verrà compromesso. Ora, proprio perché ho detto di avere fede, credo che con amore, buona volontà e tanta tanta sincerità si possa sempre ricominciare, ma più si rimanderà, più sarà difficile e le conseguenze saranno dolorose da pagare. 
Come è facile notare, spesso le reazioni dei genitori verso i figli subiscono un'escalation. Partono blande e aumentano in un crescendo di severità, ricatti, anche violenza. Non voglio puntare il dito, pure io da piccola ho preso qualche scappellotto e non ne sono rimasta traumatizzata (non sto dicendo che bisogna usare le botte, mi raccomando, non fraintendetemi!), ma il problema sta nel fatto che, giunti al culmine di questa escalation, non si hanno più soluzioni. A questo punto o si cede o si torna indietro. Ma tornare indietro non vuol dire fare piccoli passi: significa svoltare drasticamente, cambiare tutto, spesso fare scelte di vita radicali, che non coinvolgono solo i figli, ma tutta la famiglia. Il che sarà davvero duro. 
Non diamo la colpa alle cose intorno, alle persone che gravitano attorno al nucleo familiare. Tutto dipende da noi. È tutta questione di scelte e del modo in cui intendiamo la felicità. Nostra e dei nostri figli. Dico "nostri" anche se non ne ho, perché se dovessi averne saprei di stare sulla stessa barca e dover remare. Forse è per questo che per ora l'istinto materno non ha vinto sulla ragione: essere genitori è il lavoro più duro che ci sia. Già lo è essere uomini e donne, ma diventare genitori significa saper portare appieno quella responsabilità per poi insegnarlo ad altri.

È un lungo sentiero.

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