domenica 29 gennaio 2017

Il barattolo della calma

È da un po' che non lascio qui aggiornamenti, ma il lavoro è stato moltissimo e oggi posso dire che la "Nuova Pentecoste" di Medolago (BG) ha davvero dato il meglio per creare uno spazio a prova di Bambino, che esprima tutto l'amore possibile per una Creatura tanto delicata e forte allo stesso tempo. È così nata quella che noi chiamiamo "Tana del Gufo" (avremo diverse occasioni per approfondire il perché di questo nome e il senso di questo luogo). Non si tratta di perfezione, ma semplicemente di pensiero. Ed è proprio un pensiero che oggi voglio condividere con voi, sperando possa aprire piccoli o grandi orizzonti. 


Stamattina alla Tana abbiamo creato i barattoli della calma. Non so se li conoscete, sono barattoli usati nelle scuole montessoriane per aiutare i bambini a calmarsi nei momenti di rabbia e agitazione. Non ci vuole molto per farli, basta dell'acqua, dei glitter, brillantini colorati e acquarelli, oltre ovviamente a dei vasetti di vetro muniti di coperchio, da sigillare poi con della colla a caldo. Per ulteriori informazioni su questi interessanti strumenti vi rimando a questo link.
Eravamo in otto: due adulti e sei bambini/ragazzi dai tre ai dodici anni. Di solito i barattoli della calma si utilizzano con i bambini piccoli, quindi è stato un azzardo proporli a dei ragazzini. Ma la straordinaria bellezza dello stupore e della delicatezza ha colpito ancora. Ognuno aveva il suo barattolo ed era attirato da quei brillantini che si muovevano turbinando prima più veloci poi più lenti. Anche il procedimento di creazione del lavoro finale è stato ricco di attenzione ed entusiasmo e pure di un pizzico di riverenza, come se si stesse facendo qualcosa di importante. 
Come sempre durante il pomeriggio non ho potuto fermare le riflessioni in merito al lavoro svolto e a ciò che esso ha messo in luce.
Sopiti sotto dure cortecce, fatte di strafottenza, insolenza e agitazione si celava infatti il grido della calma. Un grido che oggi i bambini non possono più urlare. Un grido che forse più di tutti avrebbe il diritto di essere urlato. Adesso. 
È il diritto di guardare dentro se stessi, di ascoltarsi, di stare in silenzio e oziare, lasciandosi trasportare dai pensieri, dallo stupore, dalla meraviglia e dall'incanto. Solo dei semplici brillantini in movimento. A cosa mai potrebbe servire fissare dei brillantini in movimento? Eppure in un barattolo si nasconde tutto un mondo di sogni e necessità silenziose. Nessuna richiesta, nessuna prestazione, nessuna pressione, solo ciascuno di fronte a se stesso, con se stesso, nel proprio angolo di calma. Imparare ad ascoltare se stessi per ascoltare gli altri. Così un ragazzo agitato se ne stava lì seduto, con il suo barattolo in mano, fissando il movimento al suo interno. 
E alla fine tutti i barattoli sul mobile. Sono da decorare domenica prossima, ma resta il desiderio profondo di poterli portare con sé per dire ai grandi che anche noi più piccoli abbiamo il diritto di stare lì a far nulla eppure facendo grandi cose.

mercoledì 4 gennaio 2017

Il fallimento dell'educazione


Abbiamo fallito. Abbiamo fallito come genitori, abbiamo fallito come educatori e come insegnanti. Non posso accettare che un ragazzino di 11 anni scoppi in lacrime di fronte ai miei occhi dicendo: "Io sono stupido. Sono nato per rompere". Non posso accettare che ragazzi di undici, dodici anni mi dicano che da grandi vogliono fare i mantenuti. E non posso nemmeno lasciar stare il fatto che non sappiano più rispettare l'autorità, che sentano la necessità di ribellarsi continuamente, di fare gli anarchici. Lo sappiamo tutti che bambini e ragazzi hanno bisogno di regole per essere condotti nella direzione giusta, verso una formazione stabile e integra della propria personalità. Ma allora perché i giovanissimi di oggi non sanno più rispettare le autorità? Perché si ribellano continuamente?
Abbiamo dimenticato di essere dei buoni leader per i più piccoli. Vogliamo che le loro personalità si forgino in relazione alle nostre aspettative e se tali aspettative non vengono soddisfatte diventiamo dispotici o non curanti. Pretendiamo oppure abbandoniamo i ragazzi a loro stessi. Se crediamo che abbiano molto di più da dare li pressiamo con richieste, anche implicite, chiediamo degli standard e dei risultati di un certo livello. Insegniamo loro a competere. A competere con gli altri, con i fratelli o le sorelle maggiori, con i compagni o compagne di classe, a competere pure con noi stessi. "Puoi fare di più, devi fare di più!". E loro ci provano, continuano a provarci finché iniziano a ribellarsi, a leggere sempre meglio le nostre incongruenze e ad odiarle. E ad odiare l'autorità in genere, tutta.
Nel caso in cui pensiamo di non poterci aspettare granché, invece, beh abbiamo il coraggio di emarginare, di non prendere in considerazione, di chiedere il minimo indispensabile. E a volte nemmeno quello. È sufficiente che il bambino o la bambina, il ragazzo o la ragazza, restino nei canoni della decenza, che non ci facciano fare brutte figure e questo è sufficiente. D'altra parte che speranze potremmo nutrire?
Ma ci siamo mai resi conto che alla base di tutto questo altro non c'è che un'assoluta mancanza di ascolto e riconoscimento dell'individualità del bambino, dei suoi talenti, delle sue predisposizioni? Come possiamo aspettarci rispetto se non sappiamo rispettare? Ogni uomo, ogni individuo è stato creato con in sé qualcosa di unico e speciale, doni tutti suoi che non sono uguali a quelli di nessun altro. Se riconosciamo questo, se lo rispettiamo, se non permettiamo a nessuno (nemmeno a noi stessi) di deridere queste unicità, allora saremo leader degni di rispetto.
Mai accetterò che un bambino pensi di non essere unico, mai accetterò che pensi di non aver nulla di interessante da mettere nel mondo. Se a undici dodici anni l'io di un ragazzo o una ragazza non è formato, se non c'è speranza per il domani, fiducia nelle proprie possibilità, entusiasmo di fare e costruire, come sarà possibile entrare in quel turbine che è l'adolescenza e uscirne vivi interiormente? Facciamoci delle domande, perché abbiamo fallito e rischiamo che sia troppo tardi per tornare indietro.